giovedì 24 settembre 2020

ansietta e pensieri di morte

Una cosa che non mi faccio mancare mai è l'ansia. Lei c'è quasi tutto il tempo, inizia dopo colazione, si attenua quando preparo il pranzo, sembra assente durante il pranzo con mio marito che a quel punto è tornato da lavoro, si risveglia intorno alle 16, alle 18 circa sta già diventando disperazione e finalmente alle 18.30-18.45 ha raggiunto il suo scopo quotidiano: sono stremata, ho la nausea, i brividi, la tachicardia e la certezza di essere inutile e che presto o tardi ci darò un taglio. Il pensiero è pressapoco questo: ormai non vivo più per me stessa perché ho perso la speranza ma ho una famiglia che adoro e che mi adora e non posso fare questa cosa a loro. E poi ovviamente ho anche paura e non desidero esattamente la morte, io desidero non sentire più il dolore. Attualmente sono al terzo episodio di depressione maggiore diagnosticata in 16 anni. Se aggiungiamo il periodo dal 2000 al 2004 in cui sono stata curata, male, per disturbo da attacchi di panico abbiamo un totale di 20 anni di disturbi mentali. La mia condizione è ormai di depressa cronica in costante lotta contro i suoi demoni con variazioni del tono dell'umore e periodi buoni con un campo d'azione limitato. Non lavoro più, non guido più, devo tenere conto di certe cose per mantenere un equilibrio che mi consenta di vivere una vita, diciamo, normale o comunque soddisfacente per me e per chi mi sta intorno. Un tempo, anche nei periodi più oscuri anche se non riuscivo a sentirla a pieno avevo la consapevolezza, data dall'esperienza, che curandomi avrei superato tutto e sarei stata bene. Che con farmaci e psicoterapia all'occorrenza avrei tenuto sotto controllo la malattia e che tra alti e bassi sarei andata avanti. Ora l'idea di ritrovarmi in un futuro a rivivere ciò  che ho vissuto e superato in passato e che sto nuovamente vivendo mi getta nello sconforto. Non ho ancora superato questo episodio e già penso a quando starò male in futuro perché lo considero come cosa scontata. Che senso ha vivere così? Sino a quando la vicinanza dei miei cari sarà un deterrente? 

mercoledì 23 settembre 2020

2020 e lockdown

2020 è stato sino ad ora uno degli anni più brutti della mia vita e di anni brutti, ma brutti brutti ce ne sono stati diversi nei miei 42 anni di vita.

Il 2020 l'ho iniziato facendomi schifo, detestandomi, biasimandomi e con una nuova terapia a base di litio (con i Nirvana che iniziavano a suonare ogni volta che pensavo, sentivo, dicevo la parola litio). Andavo a tutti gli appuntamenti con la psichiatra del centro che erano frequentissimi per evitare un ricovero.

I ricordi dei primi mesi, anzi, delle prime settimane di quest'anno sono oscuri, una nebulosa di gesti automatici (svegliarmi e andare a letto ogni giorno alla stessa ora) nausea, Levopraid e acqua gassata, mia sorella e mio marito che mi fanno uscire portandomi al mercatino dell'usato della domenica o in altri posti che ora non ricordo. Due giorni alle terme nella settimana del mio compleanno. Niente musica, niente libri, niente maglia, niente cucito niente di niente, solo serie tv e pure brutte. Poi piano piano un po' di respiro, uscire la domenica mattina era piacevole, la quotidiana colazione al bar con mio padre e mia sorella una routine rassicurante. Qualche passeggiata in paese nel sentiero che costeggia la laguna mi calmava. Mi sono comprata anche un rossetto o forse l'ha comprato mia sorella, ma io lo mettevo e lo tenevo quando uscivo. Ho comprato libri, cd e pacchi di lana.  Nel mentre lottavo contro pensieri orrendi di autodistruzione e il dolore di esistere, i sensi di colpa, la nausea, la voglia di non alzarmi la mattina, la voglia di non svegliarmi la mattina. Timidamente mi rimettevo in gioco.

Non pensavo più al mio bambino non nato perché in quel momento la vita mi faceva talmente male che non c'era spazio per nessun'altra sofferenza. Era stato ficcato dentro qualche cassetto nella mia testa o forse si trovava semplicemente sotto la schifosa coperta che era il disgusto per me stessa.

Esiste un termine per definire questa sensazione di repulsione verso la propria anima? Chi si disprezza fisicamente è affetto da dismorfobia perché ha una visione distorta del proprio corpo. Io mi sento marcia dentro, compromessa, sbagliata, inopportuna, indegna. È tutto vero o sono affetta da una dismorfobia del mia persona non fisica, della mia psiche, dell'anima? Ricorre, e sicuramente ricorrerà in futuro, la parola anima perché non so trovare altri termini per definire tutto quello si è a prescindere dal corpo tuttavia non voglio intendere all'anima in senso religioso o filosofico tradizionale.

Poi il lockdown, scattato in tutta Italia nel giro di poche settimane.  Provvidenziale come la diarrea in spiaggia: i piccoli miglioramenti nell'umore e nella gestione dell'ansia, le routine rassicuranti e anche quel briciolo di vitalità data dall'impegno e la buona volontà nell'affrontare il mostro sono andati in merda, appunto.

Nella conta delle varie fobie, piccole grandi difficoltà e idiosincrasie varie c'è anche un reale problema con i cambiamenti  anche quelli apparentemente più ovvi come il cambio di stagione. Il lockdown mi letteralmente strappata a quel briciolo di normalità che mi ero data rinchiudendomi in una gabbia dentro l'altra gabbia della malattia . Niente più giretti la domenica con mio marito, passeggiate alla laguna, colazione al bar con mio padre e mia sorella. Piccole cose che per me erano diventate preziose e terapeutiche. Dietro suggerimento telefonico di Sconsy ho cercato di creare delle routine con i pochi mezzi che c'erano. Colazione ogni giorno a casa mia con mia sorella, un'ora di sole sullo sdraio in cortile, sforzarmi inutilmente di leggere, il pranzo con mio marito e al pomeriggio film, serie tv, documentari sdraiata sul divano con mio marito sulla poltrona a fianco. Ma nonostante gli sforzi stavo malissimo. Ora l'ansia aveva preso il comando ed ero ossessionata al pensiero che non sarei mai più guarita perché nessuna strategia né i farmaci mi davano sollievo. Questa paura c'è ancora.

Finito il lockdown ricomincio ad andare al mare da subito. Subito e sicurissima che sarei stata meglio all'istante. Invece sono stata malissimo, mi dicevo che non faceva abbastanza caldo per spogliarsi e fare il bagno, in realtà ho dovuto riabituarmi all'aria aperta, ad uno scenario diverso dalla mia casa e le vie intorno ad essa e a una nuova routine. Ci sono volute settimane e la pazienza di mia sorella e mio marito che nonostante dicessi di non volerci più andare organizzavano pranzi al chiosco, aperitivi al tramonto fino, passeggiate sul lungomare sino a quando è ridiventata una situazione e un luogo famigliare. A quel punto prendevo i mezzi da sola per raggiungere la spiaggia e incontrare mio marito nella sua pausa pranzo. A quel punto era di nuovo estate e tutti i pensieri, belli brutti neutri non c'erano più. L'ansia e la paura diminuivano ad ogni tuffo, la preoccupazione per il futuro era dissolta ad ogni bracciata e il sole che asciugava l'acqua dalla mia pelle faceva evaporare il dolore. L'estate e il mare mi hanno dato due mesi pieni di vacanza da me stessa. Ma l'equilibrio era tutt'altro che solido, era sufficiente una domenica in casa per gettarmi nella noia e nella disperazione. È bastato l'arrivo di un settembre un po' nuvoloso per cancellare bruscamente quello stato di benessere effimero. Continuo ad andare in spiaggia appena posso ma ormai la magia si è dissolta e sono tornate le angosce, le paure e i pensieri autodistruttivi. Arranco alla ricerca di uno spazio tutto mio che dia senso al mio esistere, cerco un hobby, un'attività qualsiasi per calmarmi e non trovandone mi dico che quello che mi manca realmente è uno scopo, un progetto di vita. Ne ho sempre avuto uno ora non più. L'infertilità ha ucciso l'unica risorsa che mi portavo dietro da sempre: la speranza.



martedì 15 settembre 2020

Per cominciare partiamo dalla fine.

 Partiamo dall'ultima grande botta 2019/20.

Un'anno fa tornavo in terapia dalla mia storica e fidata psicoterapeuta. In questa sede, per  motivi di privacy, le verrà affettuosamente attribuito lo pseudonimo di Sconsy, mitico personaggio della grandiosa Anna Maria Barbera.

La rezione di Sconsy quando in seduta mi sente ripetere per la millemillesima volta che sono una fallita

Dicevo, tornavo da Sconsy perché poco meno di un mese prima era fallita la mia terza e ultima FIVET-acronimo di Fertilizzazione In Vitro ed Embryo Transfer - una delle tecniche più usate nella procreazione assistita. Come nelle precedenti due avevo prodotto un discreto numero di ovociti, poi lavorati per diventare 3 embrioni e trasferiti nel mio utero che esattamente 15 giorni dopo li  ha espulsi. Niente si può contro la natura e le leggi della probabilità (avevo un 10% di possibilità che andasse a buon fine). Quindi nulla, non sarei diventata mamma. E non lo diventerò. Cioè, vista l'età-42 anni- è assai improbabile. Che per me significa impossibile.

Avevo fallito. Era morto quel bambino che era nato nel mio cuore subito aver deciso di provare a rimanere in cinta. Un bambino che a dire il vero è sempre stato dentro dentro di me da che ho ricordi perché sono sempre stata istintivamente sicura che sarei stata mamma. 

A pezzi. Confusa. In lutto. Non me ne facevo, non me ne faccio, una ragione e volevo elaborare la perdita in una maniera tutto sommato sana in terapia. Con Sconsy, la mia rassicurante e fidata psicoterapeuta.

In oltre, dopo un periodo di diversi mesi in cui sono rimasta senza terapista al centro di salute mentale, mi veniva assegnata una nuova psichiatra al centro di salute mentale, che chiameremo Lilli.

Lilli perché mi ricorda Lilli Gruber. Sì ho la tendenza ad affibbiare pseudonimi a chi si prende cura della mia salute mentale (a posteriori posso dire che c'è stato anche un dottor Lewis perché parlava e balbettava e faceva smorfie come Jerry Lewis).

Dicevo, iniziavo gli appuntamenti con Lilli che seguiva la parte farmacologia e Sconsy la parte della psicoterapia. Ho pochi ricordi di quei primi mesi, sicuramente si lavorava sulla perdita, sulla preziosità del desiderio di maternità e si tenevano sotto controllo il livello dell'umore e dell'ansia. Era tutto sommato sotto controllo sino a dicembre quando si è rotto, di nuovo, qualcosa dentro di me. D'improvviso non mi interessava più nulla, ho ricominciato ad odiarmi, a desiderare di non essere mai nata o di non svegliarmi mai più la mattina. Pensieri di morte. Un nuovo episodio di depressione maggiore da manuale che si affiancava, intrecciava e sovrastava l'episodio di depressione reattiva che stavo vivendo sino a quel momento. 

La mattina che mi è stato prescritto il litio piangevo e ripetevo che non mi sopportavo, mi vergognavo e non ne potevo più di me stessa nel mentre nella mia testa partivano i Nirvana come colonna sonora  appena ho sentito la parola litio.

ma porca p***ana

  Ovviamente il fatto che nell'ultimo post abbia dichiarato di stare benino e che se strabuzzo gli occhi vedo un pallido bagliore all...